Forse i lettori più avanti con gli anni ricorderanno una copertina di “A. Rivista anarchica” pubblicata nel 1977 per celebrare la promulgazione della terza Costituzione dell’Urss. Vi era raffigurato un Brežnev che letteralmente defecava il testo. Questa immagine caricaturale più volte mi è ricomparsa alla mente leggendo il disegno di legge costituzionale (Renzi-Boschi) approvato dal Parlamento nel gennaio di quest’anno e sul quale il popolo dovrà esprimersi il prossimo 4 dicembre.
Questa ulteriore riforma costituzionale – rammentiamo che l’intero titolo quinto è stato oggetto di una profonda revisione nel 2001 – sembra, a sentire le dichiarazioni dei suoi promotori, volta a ridurre i cosiddetti costi della politica ed a garantire la governabilità del paese. Per giungere al primo obiettivo (di sapore un po’ populistico) viene proposto un forte ridimensionamento del Senato, sia dal punto di vista numerico (come se qualche centinaio di Senatori in meno potessero incidere realmente sul bilancio dello Stato – l’intero apparato burocratico di quest’organo rimarrà in piedi), che dal punto di vista delle potestà legislative che ha al momento attuale. Anziché gli attuali trecentoquindici senatori eletti a suffragio universale e diretto si vorrebbe passare a novantacinque (più cinque nominati dalla presidenza della Repubblica) “rappresentativi delle istituzioni territoriali”, ovvero eletti dei Consigli Regionali (vedi art. 57 del disegno di legge).
Fra le molte cose, risulta assolutamente non chiaro chi rappresentino questi nuovi Senatori; se lo spirito della proposta voleva indirizzarsi verso la creazione di una camera a rappresentanza regionale, sulla falsa riga del Bundesrat tedesco, gli stessi dovrebbero esplicitamente rappresentare le istituzioni territoriali che li hanno eletti (vedi artt. 50 e 51 della Costituzione tedesca), mentre il nostro testo nulla menziona a riguardo, ribadendo però l’assenza di vincolo di mandato (vedi nuovo art. 67); il che fa supporre che i Senatori possano ampiamente discostarsi della aspettative delle istituzioni territoriali che li hanno eletti (ciò non avviene in terra teutonica, ove gli stessi possono venire revocati dal governo del rispettivo Land). Si mantiene pertanto una struttura parlamentare bicamerale, ma senza introdurre nella stessa una esplicita camera di rappresentanza regionale, fra l’altro è la sola Camera di Deputati ad approvare il bilancio (art. 81, comma quarto); è ben vero che l’Italia non è uno Stato federale, ma allora perché mantenere, sia pure in forma ridotta, una seconda camera? Per farla partecipare, solo nelle materie espressamente richiamate dal primo comma dell’art.70 della proposta, alla funzione legislativa ove la stessa tocchi, fra le altre, questioni relativa alle minoranze linguistiche o alle funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane? Non essendo i Senatori sottoposti a vincolo, essi possono, come sopra accennato, perseguire politiche difformi da quelle auspicate dalle formazioni sociali e istituzionali che li hanno designati; pertanto la loro presenza non garantisce il perseguimento di tali interessi.
Non appare di secondaria importanza sottolineare come la proposta in questione riduca notevolmente il potere legislativo delle Regioni, che era stato ampliato con la riforma del 2001; aumentano le materie di competenza esclusiva dello Stato e si riducono quelle di competenza concorrente fra Stato e Regione; viene altresì introdotta, al comma quarto del nuovo art. 117, la facoltà del Governo di richiamare allo Stato la regolamentazione di materie non ricomprese fra quelle di sua esclusiva competenza (di cui all’elenco al secondo comma dell’art.117). Si assiste quindi ad un netto comprimersi dell’autonomia normativa regionale.
Insomma un Senato apparentemente a risparmio, che non rappresenta le Regioni – e dove si riproporranno quelle dinamiche partitiche caratterizzanti la Camera di Deputati e causa prima della non governabilità – e delle Regioni il cui potere di regolamentazione è drasticamente ridotto senza avere come contraccambio una rappresentanza nel Parlamento. Niente di male, è una precisa scelta d’assetto istituzionale, che per certi versi richiama la Francia della Quinta repubblica, se non fosse spacciata dei promotori quale benefica salvaguardia delle autonomie regionale, con particolare riguardo alle Regioni a Statuto speciale (vedi comma terzo dell’art. 116). Ancora niente di male, se il tutto fosse stato redatto seguendo un percorso lineare, così come oramai dai lontani anni ’80 viene raccomandato dei cultori di drafting legislativo, mentre ahimè le disposizioni che saranno oggetto di referendum risultano scritte più sulla falsariga di un regolamento di condominio che su quella di una legge fondamentale dello Stato (si alternano minuziose ed inutili descrizioni a sviste madornali, una fra le tante: a chi spetta, Stato o Regione, la regolamentazione dell’industria? Attività di non poco conto in un paese dove la manifattura rappresenta ora il 16% del PIL – dati riportati dal “Il Sole24ore” del 16 ottobre 2016).
Se accentramento vi è nei rapporti fra Stato e Regioni, lo stesso traspare nei rapporti fra Governo e Parlamento. La governabilità poggia, auspice un sistema elettorale ipermaggioritario, sull’introdotto comma settimo dell’art. 72, ai sensi del quale il Governo può chiedere alla Camera, nelle materia in cui non sia previsto l’intervento legislativo del Senato, la priorità di discussione di un suo disegno di legge “essenziale per l’attuazione del programma di Governo”. In tal modo le proposte governative risultano calendarizzate su un canale preferenziale rispetto a quelle promananti dagli altri soggetti aventi potere di iniziativa legislativa. Solo di passaggio va accennato all’aggravio dell’iniziativa legislativa popolare che passa dalle attuali cinquantamila firma alle proposte centocinquantamila (vedi art. 71, comma terzo). Il fenomeno dell’astensionismo, drammatico soprattutto nelle consultazioni referendarie, viene aggirato dal comma quarto dell’art. 75 che prevede, in caso di raccolta di ottocentomila firme, un quorum proporzionale ai votanti alle ultime elezioni politiche.
Al di là dei numerosi pamphlets, alcuni di notevole spessore giuridico-politico, apparsi in questi mesi, il messaggio (per lo più governativo) che passa sui media è alquanto semplicistico (e demagogico): riduzione dei costi della politica (e del numero dei politici), semplificazione nella produzione legislativa e maggiore governabilità, quindi stabilità politica, in un paese che dalla nascita della Repubblica ha visto succedersi ben 63 Governi (il più lungo il Berlusconi II: 1412 giorni; il più breve il Fanfani I: 22 giorni). Una approvazione incondizionata della proposta Renzi-Boschi, che trova il chiaro assenso dei poteri economici (stendiamo un velo pietoso sulle ingerenze dei poteri transnazionali), proietterebbe il paese verso nuovi ed inesplorati liti di benessere materiale; a stare a sentirli parrebbe che la riforma costituzionale da loro concepita (e messa per iscritto da loro legulei di discutibile capacità) possa addirittura risollevare come per incanto l’economia italiana (dal 2008 ad oggi il PIL italiano è sceso di almeno 8,4 punti: a titolo comparativo quello della Germania è salito del 7,3%; il nostro tasso di disoccupazione è del 11,5%, quello tedesco del 4,5% – dati riportati da “Il Sole24ore” del 16 ottobre 2016). In caso di sconfitta governativa il caos, la stagnazione e niente Ponte sullo Stretto di Messina!
Insomma una propaganda stile panem et circenses (mediatici, perché di concreto c’è lo smantellamento costante delle conquiste socio-economiche, altro che pane e lavoro solo licenziamenti più facili!) orchestrata dall’omino della provvidenza ed improntata su una sloganistica disinformativa, volta in tutti i modi, nel caso specifico, a distogliere lo sguardo dal testo della proposta che verrà sottoposta a referendum e, più in generale, dalle disastrose condizioni socio-economiche del paese determinate in gran parte dalla faciloneria/cialtroneria dell’intera classe politica. Per inciso, va rammentato che proprio nella loro prospettiva istituzional-statale, ancor prima che da leggi elettorali più o meno truffaldine o costruzioni costituzionali accentrate sul ruolo del Governo, una stabilità politica deriva dalla rettitudine di un ceto politico, che non oscilla a seconda dell’odor di poltrona o degli umori della piazza chiamata a rieleggerli.
Con questi auspici mediatici, pare insomma che la proposta di riforma si adatti più a riformulare una struttura politica demagogica cucita su misura dell’omino della provvidenza, che una (diversa) democrazia rappresentativa, che dovrebbe, per lo meno nelle dichiarazioni di principio, promuovere il benessere del popolo-sovrano.
C’è solo da auspicare che questa ennesima farsa (e spreco di denaro) riesca a consolidare la oramai latente disaffezione della popolazione nei confronti dei politicanti e delle loro istituzioni, promuovendo comportamenti alternativi al potere. Insomma, che questa ennesima defecazione si trasformi, per noi gente comune, in una sorta di provvida sventura foriera di ulteriore disobbedienza!
Marco Cossutta